Santa Sofia - Un esperimento di colonizzazione nel XVIII secolo

 

Quel tratto di terreno che presso "Bau Carboni" confina con i salti di Meana e di Laconi, segnatamente per mezzo di tre sassi coll'impronta della croce in ognuno, formatavi col piccone, il più piccolo dei quali verso Maestrale serve di limite con Meana, l'altro più ampio indica il confine con Laconi per parte di Mezzogiorno, ed il terzo che guarda il Levante separa il distretto di Meana da quello di Laconi; quel tratto di terreno, dunque, i cui limiti proseguono seguendo dritto lungo il cammino fino a "Su Bau de is Iliscis", nel sito in cui vi ha un sasso che nella superficie mostra un croce, parimenti fatta con piccone, ed al lato di esso alcune pietre piccole fabbricate sotterra con calcina e coperte da altra pietra grande presso il rio, e da lì al cammino che va a Laconi fino a "su Intaccu de Sorriga", ove stan tre sassi con croce in ognuno formatavi con piccone, ad un tiro di schioppo dalla Chiesa di Santa Sofia, e a "Pala Oscura" (ove si separano i territori di Laconi, Isili e Villanovatulo e ancora dal cammino che fanno i Gadonesi per andare a Cagliari, seguendo sempre sassi, croci, alberi convenzionalmente segnati, che il tempo e le varie vicende susseguendosi hanno oramai cancellati o divelti, sino al cammino che fanno i Barbaricini per andare a Laconi, e, infine, lungo quel cammino tornando a "Bau Carboni", d'onde s'era incominciato) per una estensione molto vasta, apparteneva un tempo, col nome di Salto di Archidano, al Regio Patrimonio. Nell'ultimo trentennio del XVIII sec. e nei primi anni del XIX, eretto a feudo, mutò nome in quello di Santa Sofia, e divenne teatro di aspri contrasti e di lotte spesso cruente.

Il 3 settembre 1768, a seguito di trattative iniziate sin dal 1744, e protrattesi a lungo per difficoltà burocratiche, che invidie locali rendevano più ardue, Carlo Emanuele III Re di Sardegna vendette al nobile Don Salvatore Lostia: "i redditi civili della Regione che viene volgarmente detta di Barbagia di Belvy e che consta dei paesi di Aritzo, Gadoni, Belvy e Meana.. senza tuttavia alcuna giurisdizione e con il solo diritto di nominarvi un Delegato; e inoltre il territorio spopolato detto volgarmente "del Archidano", che era di spettanza del Regio Patrimonio, con giurisdizione civile e criminale, mero e misto imperio così da poter giudicare in prima istanza, unitamente al titolo Comitale".

Così l'atto di nascita della Contea di Santa Sofia, feudo concesso alla famiglia Lostia "secondo il costume d'Italia e di Sardegna", che ne permetteva la trasmissione agli eredi, maschi e femmine, del primo acquirente, serbato tuttavia l'ordine della primogenitura e con preferenza dei maschi sulle femmine, "cosicchè mai nessuna femmina succedesse nel feudo finché non fosse totalmente estinta la linea maschile".

Il prezzo, concordato in 45 mila lire di Sardegna, pari, cioè a 18 mila scudi sardi o a 75 mila lire piemontesi, fu interamente versato in una sola volta, da Salvatore Lostia al Regio Fisco.

Narra il Botta nella sua "Storia d'Italia", che essendo nel 1738 la Sardegna infestata da briganti, venne, dal re Carlo Emanuele, ivi inviato, col titolo di Vicerè, il marchese San Martino di Rivarolo col preciso compito di liberare l'isola da tutti i briganti; il che il Rivarolo fece con tale solerzia e con tali metodi che l'isola stessa, un po' per le continue esecuzioni a seguito di processi sommari, un po' per i confini e gli esilii, imposti e volontari, rimase semi spopolata. Giustamente preoccupato di ciò, il Marchese di Rivarolo attuò allora, in nome di Carlo Emanuele, una politica di incremento demografico "volgendosi a chi poteva spendere, dicendo doversi dare i paesi spogliati d'abitatori a titolo feudatario a chi volesse e potesse chiamarvi coloni con anticipazioni di fondi per l'edifizio delle case e la coltivazione delle terre, e con altra agevolezze tendenti ad allettare".

Fosse in prosecuzione di tale politica, fosse per altre e consimili ragioni, nell'atto di investitura del Feudo di Santa Sofia, fu apposta una clausola con la quale si faceva obbligo al Conte di S. Sofia "di condurre a proprie spese, entro 10 anni dalla messa in possesso di detto feudo, nei territori dell'Archidano, 40 famiglie per costituire una Colonia col nome di Santa Sophia, procurando per di più abitazioni, arnesi e tutto quanto fosse necessario ai coloni". Inoltre fu data facoltà al feudatario di impossessarsi di tutti quei territori confinanti, anche se appartenenti ad altri baroni, purché incolti e di provata utilità per l'erigenda colonia, affidandone l'incarico di valutarne l'indennità alla Regia Intendenza Generale.

Il 14 dicembre 1770 moriva Salvatore Lostia, 1° Conte di S. Sofia, dopo appena due anni della sua investitura; non pare che a quell'epoca la Colonia fosse stata ancora iniziata.

Il Dispaccio di investitura concessa al Nobile Don Giuseppe Maria Lostia, figlio primogenito del fu Salvatore, porta la data del 24 dicembre 1777 e la firma di Don Felice Giaime, Intendente Generale, Giudice del Real Patrimonio e Conservatore del Tabellione nel Regno di Sardegna. Ma è certo, come risulta dai documenti premessi allo stesso Dispaccio, che Giuseppe Maria Lostia entrò in possesso dei feudi immediatamente dopo la morte del padre suo.

L'amministrazione del Conte Giuseppe Maria fu senza dubbio una buona, ordinata e onesta amministrazione, come dimostrano e il rendiconto per l'anno 1795, fatto dall'intendente di Meana, Antiogu Elias Agus, e l'arbitrato tra i pastori di Meana e il Conte stesso per alcuni diritti feudali in contestazione; furono arbitri in tale contesa per i pastori l'Avvocato Efisio Luigi Pintor Sirigu, e per il Conte il di lui figlio primogenito Avvocato Don Salvatore, futuro III° Conte. L'arbitrato, che porta la data del 20 aprile 1797, si risolse con piena soddisfazione di ambo le parti.

Tra l'anno 1774 e il 1779 furono fatti tre tentativi per adempiere all'obbligo di colonizzazione che il Governo, e soprattutto il Fisco sollecitavano attribuendovi, logicamente, grande importanza poiché da una Colonia fiorente si sarebbe potuto esigere ben più che da un appezzamento di terreno a pascolo brado.

Nel 1774 finalmente si fece l'atto di costituzione della Colonia di Santa Sofia: tale atto fu rogato da Francesco Cadello Marras di Meana, notaro, il giorno 2 maggio. In esso strumento si stabiliscono i rapporti tra i vassalli e il signore del feudo. Dall'elenco dei diritti feudali risulta che la Colonia era ben avviata, essendovi in essa una Villa Padronale, una Chiesa e ventisei case, cioè ventisei famiglie (delle 40 cui da contratto). Risulta che vi erano pecore, vacche, capre, cavalli, porci e api, che vi erano vigne, che vi si coltivava grano, orzo e alberi da frutta. Con tale atto veniva concessa ai coloni una franchigia dei sei anni sui diritti feudali e l'esenzione delle decime ecclesiastiche per quattro anni, sempre a cominciare da quel 1774. La Colonia appariva, nella primavera di quell'anno, dotata di tutto il necessario per conseguire in breve sicura prosperità.

Ma la nuova popolazione disturbava quelle che erano, da sempre, le abitudini di pascolo dei paesi circonvicini; e questi, mal sopportando la rinuncia ad un territorio che, nella loro mente, si configurava come libero e di diritto aperto a tutti, sia d'accordo, sia ciascun paese per proprio conto, iniziarono una serie di scorrerie e di azioni intimidatorie contro i coloni di S. Sofia.

Dapprima gli abitanti di Nurallao, formata una quadriglia di "sessanta e più uomini armati" a cavallo, devastarono la nuova colonia diroccando varie case, ammazzando il Maggiore di giustizia e il Sindaco, mettendo in fuga gli atterriti villici e distruggendo i seminati e le vigne col lasciarvi i propri cavalli alla sciolta.

Per nulla turbato da tale dimostrazione, Giuseppe Maria Lostia, avendo preso amore al suo feudo, e volendo che questo rifiorisse, raccolse i villani, li rianimò, alcuni riuscì a convincerne, altri ne prese da altri paesi, e, per la seconda volta, Santa Sofia fu riedificata.

Il secondo atto di nascita fu rogato da Antonio Maria Desogus di Seurgus; con esso furono concesse, ad incoraggiamento dei coloni, nuove facilitazioni ed agevolazioni sui diritti feudali, la cui esazione venne dilazionata di altri quattro anni (dieci complessivi) salve però le decime ecclesiastiche la cui esenzione rimase sempre di quattro anni, a partire dal 1774. L'atto porta la data dell'8 novembre 1777.

La Colonia in breve rifiorì, e quando già cominciava a produrre, un fuoco, appiccato dalla parte di Laconi e Gadoni, spingendosi sin nell'abitato, dopo aver distrutti i seminati ed abbracciati gli alberi, fece un rogo e delle porte e di tutto il legno che vi era nelle abitazioni, atterrendo nuovamente i coloni, i quali si diedero a precipitosa fuga.

Ciononostante il Conte Giuseppe Maria volle ancora, sia per amore, sia per ostinazione, sia per le pressioni del Fisco, tentare per la terza volta di adempiere alla clausola; e per la terza volta con piccole scorrerie, con incendi, con minacce, ora gli abitanti di Isili, ora quelli di Gadoni ed ora quelli di Villanovatulo, tenendo i coloni in stato di continua apprensione, li costringevano a rinunciare ora ai raccolti ed ora ai pascoli, spesso riuscendo ad intimorirli al punto da spingerli alla fuga.

Eppure, finché la chiesa e la Parrocchia rimasero, quasi cuore della nuova popolazione, una parte dei villani resistette, nella speranza, forse che se non il potere temporale, almeno quello spirituale finisse per aver ragione di tante ribalderie. All'atto della stipulazione del contratto di infeudazione si era stabilito che per quattro anni restassero a carico del Conte le spese per la Chiesa, per il Parroco e per gli arredi sacri; dopo quel termine tutto sarebbe passato alla Mensa Arcivescovile di Oristano. Il Conte di S. Sofia sopportò le spese non per quattro, ma per dieci anni, finché, d'ordine del Governo e per istanza del Vicario Capitolare di Oristano, fu costretto a consegnare e la Chiesa e i Sacri Arredi. Ma il Vicario Capitolare di Oristano, diventato poi Vescovo di quella Diocesi, nonostante i precisi ordini del Governo, non volle più interessarsi alla Parrocchia ed alla Chiesa di S. Sofia, forse considerando inutili le spese per il mantenimento di un esercizio spirituale in un comune destinato sicuramente a scomparire; ed infatti in breve tutta la Chiesa si ridusse ad un rudere diroccato.

Questo determinò gli abitanti ad abbandonare il paese, quasi che il disinteresse dimostrato dal potere spirituale sancisse ed omologasse quanto dai paesi vicini veniva fatto in loro odio.

Morto Giuseppe Maria Lostia, e ricevuta l'infeudazione per diritto di maggiorascato il di lui figlio Salvatore, III° Conte, questi volle, nel 1806, tentare ancora un esperimento.

Recatosi nel suo feudo con una squadra di muratori e presi i dovuti accordi, mentre si accingevano questi ad iniziare i lavori di riadattamento delle case, il 19 marzo dello stesso anno l'Ufficiale di Giustizia di Isili, Don Luigi Bologner, formata una quadriglia di 30 uomini armati a cavallo, ne venne a S. Sofia e, con rompimento di giurisdizione, tratti da Chiesa, ove ascoltavano la messa, due vassalli del Conte, li arrestò e li trasse seco. L'atto impaurì talmente i coloni che una volta di più abbandonarono quel territorio.

Invano Salvatore Lostia si rivolse alla Giustizia del luogo con istanze e denunce: non venne a capo di nulla. Indirizzò allora una supplica al Re lamentando i soprusi subiti, dicendo come si dovesse ritenere sciolto l'obbligo di fondare una colonia, e come, tuttavia fosse disposto a tentare un quinto esperimento. Purché la Prefettura di Laconi gli garantisse protezione ed assistenza, egli avrebbe portato nuovi coloni, prendendoli dai paesi più malintenzionati col preciso proposito di frenare gli abusi con le amicizie ed i vincoli di sangue. Probabilmente il Governo dovette promettere protezione perché il nuovo esperimento fu tentato, ed ebbe lo stesso esito dei precedenti. Tale Antioco Asuni di Isili, "uno dei concorrenti al tempo dell'insulto fatto da Don Luigi Bologner", volendo sfruttare il salto di Santa Sofia come pascolo per cavalle e vacche di sua proprietà, tanto fece e tanto minacciò che i coloni non ebbero più coraggio di rimanere in una terra così contrastata e l'abbandonarono definitivamente.

Di questo il Conte Salvatore Lostia, lamentandosi in una nuova supplica indirizzata a Carlo Felice, si serviva per dimostrare la impossibilità di adempiere alla clausola, opponendo anzi che le spese incontrate nei tanti esperimenti passivi minacciavano di ridurre la propria famiglia in istato di grave indigenza.

Alla morte del Conte Salvatore, avvenuta il 4 febbraio 1828, per diritto di primogenitura passarono al di lui figlio Raffaele tutti i diritti feudali con investitura del 4 gennaio 1831. Nella dichiarazione dei redditi e degli oneri relativi ai feudi concessi, presentata al Regio Fisco in quella occasione si legge: "Articolo Primo: Terreni feudali posseduti e coltivati per conto proprio dal Feudatario: Non ve ne sono; tuttoché però non esistano ivi terreni ridotti a coltura dal Feudatario, e che egli coltivi per conto proprio, appartengono nondimeno al di lui demanio tutti i terreni appartenenti alla giurisdizione del Feudo. Articolo Secondo: Terreni feudali tenuti e coltivati dagli abitanti: Non esistendovi abitanti né Comune, non occorre niente da notare all'uopo".

Non rimanevano al Feudatario che i diritti di giurisdizione, con gli oneri relativi, nonché i redditi derivanti dagli appalti delle ghiande e dei pascoli, il che faceva in tutto, dedotte le spese, lire 904 annue.

E questo può considerarsi l'atto di morte della Colonia di S. Sofia, i cui diritti feudali scomparvero facilmente col cadere delle istituzioni similari in Sardegna; cosicché nell'atto di divisione dell'eredità lasciata da Raffaele Lostia, IV° Conte di S. Sofia, ai propri figli, il 4 luglio 1880, nessuna menzione fu fatta del Feudo di S. Sofia che per cinquant'anni era stato campo di lotte appassionate tra i villici circonvicini, che si vedevano defraudati di una loro secolare abitudine di pascolo, e un Feudatario desideroso di trasformare una zona incolta in un fiorente comune agricolo.